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L’aggressività e il potere

Il termine aggressività deriva dal latino aggredior, che significa andare avanti, di per sé è, quindi, una pulsione funzionale alla sopravvivenza. Perciò è una componente assolutamente presente in ognuno, ma che si ha difficoltà a riconoscere nella valenza originaria. Il problema nasce quando, di quella forza funzionale, necessaria, se ne fa un uso distorto, dovuto probabilmente a dinamiche irrisolte. Ciò, ovviamente, riguarda principalmente gli esseri umani, in quanto posseggono sovrastrutture, spesso lontane, come consapevolezza, dai funzionamenti innati, autopoietici. La ribellione, per esempio, può essere una forza sana, indispensabile per andare avanti, ma a volte è una spinta soffocata, colpevolizzata, che produce effetti che possono tradursi anche in forme autoaggressive. Riappropriarsi di questa funzione, nella sua accezione di forza finalizzata all’andare avanti, alla crescita, all’evoluzione, è frutto di un percorso dentro se stessi, spesso lungo, tortuoso, a volte doloroso, perché si scopre che spesso l’aggressività si agisce non tanto nella sua accezione etimologica, quanto sotto forma di azioni coercitive, più o meno manifeste, più o meno subdole, che agiamo verso l’altro e verso noi stessi. A volte, sono il prodotto di azioni violente subite, di repressioni, nascoste sotto forma di gesti amorevoli, quindi più difficili da riconoscere, soprattutto se ciò è successo nell’età infantile e se esercitate da figure care, significative (spesso, inconsapevolmente o meno, proprio dai genitori). Nel caso della pedofilia, ciò è evidente ma, senza arrivare a casi così estremi, anche rimpinzare di cibo il figlio, giustificarlo qualunque cosa faccia, reprimerlo nella sua esigenza motoria, ludica, pretendendo dei comportamenti da adulto, ecc., sono forme aggressive (anche se non agite, la maggior parte delle volte, con la consapevolezza di questa valenza, quanto con una finalità protettiva). Possono determinarsi non pochi conflitti relazionali, nella fase in cui si compiono, ma anche in futuro, se non si pongono rimedi. Su larga scala, imporre le proprie forme di pensiero diventa uno stile di vita per persone a capo di intere masse o per Capi di Stato. Essendo molto lontane dalla strutturalità, quelle idee non possono che essere profondamente distorte, fino a produrre forme assurde e paradossali, imposizioni che raggiungono picchi di indicibile ed efferata violenza (pensiamo alle guerre, per cui, purtroppo, da sempre, la prevaricazione, in nome di la mia idea è migliore della tua, miete continue vittime che, forse, nel proprio modo di vivere, hanno agito nella tolleranza). A volte, l’aggressività non è riconosciuta come appartenente a sé, preferendo una percezione e un’immagine che si vuole dare all’esterno di persona gentile, amorevole, affabile, buona. Quella carica, quella pulsione che sicuramente c’è (in quanto appartenente agli esseri viventi) se viene involuta, talvolta può essere somatizzata in maniera cronica: la patologia. Ogni patologia, vedremo, ha una componente legata all’aggressività, non vista, non consapevolizzata o non elaborata-risolta. L’aggressività può essere esplosiva o silente, può assumere forme manipolatorie, seduttive, castranti, neganti; spesso si traduce in una forma di autoaggressione, che si può manifestare anche attraverso il colpire l’altro. In quest’ultimo caso, per esempio, è quando tronchiamo una relazione affettiva, oppure ci neghiamo un’esperienza, un lavoro, uno studio che vorremmo fare (…), per un senso di inadeguatezza, per paura del giudizio, come forma di mantenimento di una condizione che, seppur riconosciamo non piacerci, manteniamo per paura del nuovo, e così via. O, al contrario, può essere una tendenza ad entrare continuamente nel desiderio dell’altro (anche se non lo condividiamo completamente), per sentirsi accettati, per non assumersi le proprie azioni divergenti, i propri bisogni e quindi non autonomizzarsi, ecc. La forma negante può essere esplicita nel non tenere in considerazione l’esigenza altrui, le sue richieste o assumendo comportamenti palesemente in contrapposizione, ma anche con atteggiamenti silenti, attraverso piccoli gesti come il non guardare negli occhi l’interlocutore, ridurre al minimo la conversazione, non rispondere, ecc. In ogni caso, sottintende paradossalmente sempre una relazione, un legame con l’altro, proprio perché la propria azione o reazione è una risposta al comportamento altrui, non il frutto della propria autodeterminazione. Si attua la forma castrante quando non si lascia esprimere o non si soddisfa la richiesta altrui (o la propria), tenendo conto soltanto dei propri (o altrui) riferimenti, per esempio quando si agisce un comportamento che ferisce l’altro se questi compie un’azione che non si condivide, quando lo si rimprovera, lo si colpevolizza continuamente (…). Può essere la mamma iperprotettiva che, per paure sue o per la preoccupazione di dover gestire le eventuali conseguenze di quel dato comportamento, dice al figlio di non correre altrimenti suda o si fa male; non gli permette di praticare quel desiderato sport o di intraprendere quel determinato studio perché non consono alle proprie aspettative; è la donna (o l’uomo) che non vuole che il partner frequenti le proprie amicizie o che lo faccia fuori dalla coppia o non intraprenda quella carriera o non si vesta in quel determinato modo, ecc. La seduzione, la manipolazione possono esprimersi nell’attrarre l’altro nella propria sfera, utilizzando comportamenti gentili, generosi, sorridenti, ma con la finalità di farne un uso strumentale, sfruttando le sue competenze, le sue caratteristiche, senza nessun reale interessamento alla persona in sé. È un atteggiamento utilizzato spesso per far carriera, per ottenere rapporti sessuali, come forma di compiacimento personale, come ricerca di affermazione di sé o, ancora, per esercitare un potere o vivere di luce riflessa. Veniamo ora alla tematica potere. Il verbo potere significa essere in grado, avere facoltà, diritto, di fare qualcosa. Quello che si evince dal vissuto Io-somatico della maggior parte delle persone è, invece, che tale termine coincida il più delle volte con un’azione coercitiva, di dominio, di imposizione, sull’altro. Sembra che anche questo concetto, di per sé neutro e funzionale, come per il termine aggressività, sia stato distorto nella sua introiezione. Razionalmente sappiamo tutti che cosa questo termine indichi ma, quando le persone vengono invitate, durante le Autopoiesi Io-somatiche, ad esprimere, attraverso il linguaggio non verbale, quanto sanno, secondo la propria esperienza diretta e indiretta, di questa tematica, quasi sempre emergono dinamiche legate al predominio sull’altro. Questo evidenzia che, in generale, non c’è una completa competenza rispetto a se stessi, nel senso che non ci si riconosce le reali capacità, potenzialità, funzionalità. Si tende piuttosto ad automistificarsi, amplificarsi o, all’opposto, a sminuirsi o a sminuire l’altro. Tutto ciò fa perdere un’enorme quantità di tempo rispetto se stessi, anche se, da lì, si deve necessariamente partire, se si evidenzia questo. Tali dinamiche indicano sempre una mancanza di riconoscimento del proprio potere reale. Sono la risultante di uno squilibrio conoscitivo di sé. Spesso, infatti, si agisce e ci si giudica confrontandosi con l’altro, meccanismo che è esso stesso un tentativo di conoscenza di se stessi, addirittura fisiologico. Il bambino fa riferimento alle figure che lo accudiscono per appropriarsi delle modalità comportamentali; durante il suo percorso di crescita ha poi necessità di differenziarsi (spesso opponendosi, ribellandosi, creando situazioni conflittuali) dalle stesse figure di riferimento, alla ricerca della propria identità, fase che coincide spesso con l’adolescenza, fino a trovare la propria modalità. Ma, seppure ciò si collochi in un determinato periodo anagrafico, non è assolutamente detto che certe dinamiche si consapevolizzino e si evolvano, determinando una effettiva crescita psico[1]emozionale. Spesso, infatti, si continuano a proiettare queste dinamiche rispetto ad altre figure: al datore di lavoro, a un superiore, al maestro o a quella figura che rappresenta l’autorità (per esempio, cercando continuamente la sua approvazione, al di là ovviamente dell’espletamento del compito assegnato; soffrendo per un mancato riconoscimento, entrando in modalità apertamente conflittuali, provocatorie, avendo titubanze relazionali o approcci poco fluidi, proprio perché condizionati da ciò che, simbolicamente, nella propria interiorità, quella figura rappresenta per sé). Allo stesso modo, nelle relazioni affettive, in genere l’altro esiste in funzione delle proprie aspettative e, appena questi se ne discosta, si cade nel conflitto. E, nell’illusione di essere in relazione, giurando di soffrire o gioire per la presenza o l’assenza dell’altro, in realtà siamo in relazione con noi stessi, con quella parte di noi che l’altro simbolicamente rappresenta. All’altro, attribuiamo il potere di farci stare bene o male, senza sapere che vedere, ri-conoscere quello che noi stiamo mettendo nella relazione, in base alla nostra storia interiore, esistenziale, è il primo passo verso il riconoscimento delle nostre capacità, funzionalità o disfunzionalità, è l’occasione per poter correggere di noi stessi ciò che riteniamo opportuno. È soltanto questo che tecnicamente, concretamente possiamo realizzare, non cambiare l’altro, che potrà decidere di farlo solo in base alla propria motivazione, non in base alla nostra. Ecco che allora soltanto conoscendo profondamente noi stessi possiamo entrare realmente in relazione con l’altro: una relazione autentica e non proiettiva, questo è un esempio di potere reale. Il potere è proiettivo, quando pensiamo di poter agirlo sull’altro o quando attribuiamo all’altro la possibilità di agirlo su di noi. In realtà, abbiamo sempre una possibilità di scelta, se riconosciamo il nostro potere reale, anche quando non possiamo modificare la realtà, abbiamo la possibilità di scegliere come relazionarci ad essa e non essere soltanto una reazione, quanto piuttosto azione autodeterminata. Ecco che il potere reale acquisisce quell’accezione etimologica neutra di poter fare, spesso invece, ci posizioniamo sul che cosa e non semplicemente sul poter (…). Secondo quest’ottica, possiamo meglio comprendere anche l’accezione di dominio, ma in riferimento a se stessi. Nella malattia ciò acquisisce forse ancora più importanza, perché può fare la differenza tra il sentirsi schiacciati e senza via di scampo e il migliorare la qualità della vita. Tutto ciò non è facile, non è breve, non è esente da momenti di ricaduta, ma è possibile.


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